Lo Stato siamo noi? – Sull’interesse nazionale

di Andria Pili.

La fallacia più grande del comune sciovinismo italiano è la eguaglianza tra Stato e nazionalità ma vi è un’altra falsità più rilevante, perché chiama in causa altro, oltre l’ignoranza: lo Stato siamo noi.

mezzogiorno

Bugie scolpite sulla Costituzione della Repubblica, laddove considera l’Italia uno Stato unico ed indivisibile (art.5) e suppone l’esistenza di una nazione – e quindi di un interesse nazionale comune – che i parlamentari dovrebbero rappresentare, senza vincoli di mandato (art.67).

L’ultimo rapporto Svimez ha messo in mostra la nota situazione di arretratezza del Meridione con toni più tragici del solito: si sostiene, osservando i dati economici tra il 2000 ed il 2013, come il divario tra Nord e Sud abbia assunto i caratteri di un sottosviluppo permanente, quindi irreversibile. Ciò ha messo in moto la solita retorica nazionalista e paternalista: dalle accuse ai governi per aver abbandonato il Sud ai richiami per l’interesse nazionale, per cui l’Italia tutta avrebbe un’assoluta necessità di migliorare la situazione del Mezzogiorno per poter riprendersi dalla crisi. Retorica rivelatrice di un velo ideologico sciovinista, che si può così riassumere: l’unità della nazione italiana è sacra; lo Stato è di tutti i cittadini indistintamente, per cui è deprecabile tanto l’abbandono di una parte dei cittadini quanto le tendenze anti-Stato di questi.

Ma lo Stato non siamo noi, esso è lo strumento della classe dominante. Così, creata la fittizia identità tra Stato e l’insieme dei cittadini sul territorio di questo, poi il raggruppamento dello stesso corpo sociale entro una immaginaria nazione monolitica, in tutti gli Stati-nazione quando si parla di “interessi generali” non si fa altro che parlare, in realtà, degli interessi economici di questa classe dominante che – nella penisola italica – è situata al Nord. La visione economica del governo dello Stato italiano non potrà che essere compatibile con gli interessi della borghesia nell’area più sviluppata della penisola; ovviamente, non è detto che questi interessi coincidano con quelli del Meridione.

Infatti, il dualismo economico ed i conseguenti differenti interessi economici, tra i due poli della penisola, sono esistenti almeno dal Basso Medioevo, quando il Nord – sino all’avvento dell’egemonia olandese nel XVII secolo – era la principale potenza capitalistica mondiale. Il sociologo Immanuel Wallestein pose le più importanti città dell’area – Venezia, Genova, Milano e Firenze – all’origine del sistema interstatale moderno, che per Wallerstein è causa ed effetto dell’incessante accumulazione di capitale nel mondo; l’economista Giovanni Arrighi identificò la Serenissima Repubblica come il prototipo di tutti gli stati capitalistici dominanti che verranno (Province Unite; Regno Unito; Stati Uniti). Alla vigilia dell’Unità d’Italia, vi erano soltanto tre regioni con uno sviluppo economico considerevole: Piemonte e Liguria – che formavano un complesso intercollegato entro il Regno sabaudo, basato sull’industria metalmeccanica, filatura, tessitura, la finanza genovese e le ferrovie – e la Lombardia, sotto dominazione asburgica, in cui era presente un terzo delle ferrovie italiche ed un sistema di imprese piccole e medie oltre che un’industria metalmeccanica, un cotonificio e notevoli innovazioni tecniche come l’illuminazione a gas. Non a caso, le borghesie di queste tre regioni furono le principali sostenitrici del progetto di Unità italiana e le stesse regioni formeranno quello che sarà noto come Triangolo Industriale. Al contrario, l’area del Regno delle due Sicilie era e rimarrà in coda nell’economia della penisola. Si presentava tanto diseguale (il 60% del reddito in mano ad un pugno di famiglie baronali e membri del clero) da ostacolare la formazione di una classe di proprietari agricoli borghesi e tenere in piedi a lungo il potere dei latifondisti. Malgrado l’agricoltura fosse l’attività principale, la produttività agricola era pari a solo un terzo di quella lombarda.

«Ogni euro investito nel Sud per il 40% ricade a favore del sistema produttivo del Centro-Nord. Non solo: il Mezzogiorno costituisce mercato di sbocco per oltre un quarto della produzione del resto del Paese».

Questa frase – pronunciata dal vicepresidente della Confindustria, Alessandro Laterza – ci mostra in modo esplicito in che termini “il Sud è una questione nazionale” e perché;

«Solo attraverso una ripresa del Mezzogiorno possiamo portare in equilibrio l’economia nazionale».

La stessa frase è tremendamente simile a quella del meridionalista Leopoldo Franchetti, scritta oltre un secolo fa:

«La prosperità materiale del Mezzogiorno significa un mercato più largo per i prodotti industriali del Nord».

pil pro capite

L’unica prospettiva, insomma, è uno sviluppo subalterno. Dando uno sguardo alla storia economica dell’Italia politicamente unita, si può vedere come lo Stato continui a mantenere la propria struttura, malgrado i mutamenti intercorsi nella sua forma (Regno liberale, dittatura fascista, repubblica liberaldemocratica) e nella cultura dominante. A guidarlo sono sempre le ragioni del capitalismo settentrionale, nei confronti del quale il Sud (oggetto di questa riflessione) e le isole devono tenersi subalterni, relegate al permanente ruolo di periferia per l’espansione economica delle industrie del Nord.

Dal blocco industriale-agrario (individuato da Gramsci, caratterizzante il periodo tra 1861 e 1945) sino alla più recente fase dell’attuale ceto politico-amministrativo-affaristico (chiamato da Saraceno “nuovo blocco sociale regressivo”), le classi sociali che hanno voluto e plasmato l’Unità d’Italia – ed i governi espressione degli interessi di queste – si sono poste non in contrasto bensì in continuità con le vecchie oligarchie meridionali pre-unitarie, nell’interesse comune a mantenere il Meridione in condizioni di arretratezza.

Nella prima fase – dai governi di Zanardelli e Giolitti sino al regime fascista – la politica economica per il Sud, sorta in risposta alla crescita dell’opinione meridionalista e delle rivolte popolari, era fatta da opere pubbliche slegate da un piano organico speciale: bonifiche, rimboschimenti, sgravi fiscali e crediti agrari, provvedimenti per riavviare l’industria napoletana, la costruzione dell’acquedotto pugliese. Dato il contesto sociale – in cui il forte potere agrario al Sud ostacolava qualsiasi modernizzazione – tali provvedimenti furono tutt’al più di facciata e non furono mai finanziati in modo adeguato. È abbastanza indicativo il fatto che ¾ delle bonifiche fasciste furono compiute nel Nord Italia. La politica protezionistica applicata a partire dalla Sinistra storica – dall’ultimo quarto del XIX secolo – fu pensata per favorire il capitale settentrionale, il cui triangolo industriale decollò mentre l’economia del Meridione veniva danneggiata. Il Sud vide ostacolata l’esportazione delle proprie colture più redditizie (es. la viticoltura in Puglia) e vide scomparire – sotto i colpi della concorrenza – dei pezzi del suo pur scarso settore industriale (le fabbriche di panno nel napoletano, l’artigianato per felpe, mussole, fustagni della Puglia, l’industria cartiera di Sulmona; concerie; lavorazione di pelli; chioderie; attrezzi agricoli); l’occupazione crollò da 1956000 a 1270000 unità mentre la sovrappopolazione nelle campagne sfociò in una massiccia emigrazione. Questa – grazie alle rimesse – fu ugualmente utile al capitale settentrionale, contribuendo all’allargamento del mercato italiano, sia per il consumo interno che per sostenere le importazioni funzionali allo sviluppo di queste industrie, grazie ad uno scambio ineguale con il Sud (prodotti agricoli a basso prezzo contro manufatti).

Divario-tra-nord-e-sud

La politica dei governi dell’Italia repubblicana italiana nel XX secolo è stata per un processo di sviluppo dall’alto, il cui perno fu la Cassa del Mezzogiorno. Questa, inizialmente, ha finanziato la realizzazione di opere pubbliche (strade, ferrovie, acquedotti, energia elettrica) subito dopo è stata volta al finanziamento di distretti industriali da localizzare nel meridione dal capitalismo di Stato (es. acciaieria Italsider a Taranto o l’Alfa sud di Pomigliano d’Arco) e di incentivi perché le industrie del Nord investissero nell’area (Montecatini a Brindisi). Ovviamente, non poteva essere un interesse dei privati del Nord – come dei governi che guardano agli interessi di questi – che al Sud si creassero delle industrie concorrenti, così l’unico vero sviluppo in quest’area fu quello dell’edilizia. Attorno a questo innesto di denaro pubblico sorse il blocco di potere politico-amministrativo-affarista, volto al controllo locale di questo processo di sviluppo subalterno, entro cui si è inserita la criminalità organizzata oltre che i comportamenti deleteri indotti dall’assistenzialismo.

Il Sud non poté mettersi al passo con le aree più sviluppate della penisola, rispettando il proprio ruolo di gregario per l’interesse nazionale, funzionale alla crescita di quelle per il cosiddetto Miracolo Italiano. Sostenne questo come serbatoio di manodopera disponibile per le industrie settentrionali (dal 1951 al 1971, 4 milioni di emigrati) e come luogo di consumo, grazie all’indotto aumento del reddito che rese i cittadini meridionali dei consumatori di merci prodotte al Nord (nel 1959, il Mezzogiorno ha assorbito il 70% di queste); inoltre, il sistema di incentivi permise ai privati del settentrione di raccogliere importanti capitali.

Con la nascita della CEE sino all’Unione Europea, l’obiettivo della borghesia del Nord si fa sempre più distante da quello di uno sviluppo dell’altra parte della penisola, visto che diventa centrale convergere con le altre aree sviluppate d’Europa. Con il fallimento del capitalismo di Stato, le privatizzazioni, il declino delle grandi imprese italiane, le controriforme sociali dei governi italiani tra anni ’90 e 2000 diventano un ottimo alibi per una borghesia italiana che non investe in innovazione. La Cassa del Mezzogiorno scomparsa nel 1993 ha fatto rientrare le spese nel Sud alla competenza dei ministeri ordinari, lasciando anche spazio ai meccanismi europei di piani locali per lo sviluppo delle aree depresse.

Il dualismo economico italiano, l’esistenza di uno sviluppo squilibrato con il Nord al centro ed il Sud come sua periferia, non è un’eccezione ma una costante dello Stato unitario. Esso ha favorito lo sviluppo dell’industria settentrionale con il sostegno della classe dirigente sua espressione da sempre. Per questo ritengo che l’unica soluzione per lo sviluppo del meridione della penisola italica passi esclusivamente per le sue comunità, anziché sullo Stato e sulla presunta esistenza di interessi comuni dietro la finzione della “nazione italiana”. Nel Mezzogiorno è necessaria l’affermazione di partiti “regionalisti” progressisti (cioè privi di sterili e ridicoli nostalgismi) che mutino i rapporti di forza attualmente esistenti nello Stato unitario e contrastino il blocco di potere autoctono che prospera sulla subalternità. Entro questo processo non può essere preclusa ideologicamente una evoluzione in senso indipendentista (secondo la visione delle comunità oppresse) o secessionista (secondo la visione dell’oppressore).

Gli oppressi si liberano da sé e perché essi prendano coscienza della propria oggettiva oppressione è necessaria una rivoluzione culturale, che nel meridione significa mostrare la finzione dell’italianità, che altro non è stata se non la sovrastruttura volta a coprire la natura dello Stato unitario, per pensare a quest’ultimo come ad un’istituzione estranea ai propri interessi in quanto mero strumento della borghesia settentrionale.

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BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE


Vera Zamagni. “Introduzione alla storia economica d’Italia”, Il Mulino (2007);

Valerio Castronovo, “La storia economica d’Italia- dall’Ottocento ai giorni nostri”, Einaudi (1995);

Giulio Sapelli,  “Storia economica dell’Italia contemporanea”, Mondadori (1997);

Pierre Milza, “Storia d’Italia”, Corbaccio (2006);

Guy Forquin, “Storia economica dell’Occidente medievale”, Il Mulino (1994).

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