The Martian – Sopravvivere su Marte

di Enrico Bulleri.

«Riportarlo a casa da soli 140 milioni di miglia». La bellezza di The Martian sta nella sua relativa semplicità.

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Anche se dura solidamente due ore e venti minuti, l’ultimo lavoro di Ridley Scott sembra molto più veloce rispetto a molti dei suoi film contemporanei perché mantiene fermo il suo sguardo su una dinamica molto semplice e centrale. Entro i primi cinque minuti, lo status quo del film è stabilito con un’efficienza da lasciare senza fiato; l’astronauta Mark Whatney è lasciato per morto sulla superficie di Marte, e deve lottare per sopravvivere come l’intero pianeta Terra viene a conoscenza che invece è ancora in vita e deve adoperarsi a trovare un modo per salvarlo. La premessa è molto semplice, come di rado accade nel sempre più complicato cinema di oggi Mark cerca di capire come rimanere in vita mentre le più grandi menti della Terra si mettono al lavoro progettando dei piani che possano osare un tentativo di recuperare l’astronauta perduto, e ristabilire le comunicazioni.

Lungo la strada, sia Mark che la NASA subiscono battute d’arresto e avversità; le complicazioni abbondano e i dilemmi si presentano. Tuttavia, The Martian rimane sempre saldamente molto ancorato alla lotta di base contro forze schiaccianti, nel contesto di un indifferente universo. C’è vita su Marte? The Martian è una sorta di cocktail della fantascienza umanista anni sessanta. Il tono e la trama del film che forse viene evocato con maggiore trasporto e riferimento è il cult del 1964 di Byron HaskinS.O.S. Naufragio nello spazio” (Robinson Crusoe on Mars).” La situazione di Mark non è troppo dissimile da quello del protagonista del romanzo di Daniel Defoe, né a quella di Chuck Noland in “Cast Away” o dell’anonimo protagonista interpretato da Robert Redford l’anno scorso nel bellissimo “All Is Lost” di J. C. Chandor. Tuttavia, l’ambientazione stellare del film funge da porta d’ingresso per un commento più ampio sulla solitudine e la necessità umana di avere un’altra persona con cui parlare e confrontarsi. Nessuno arriva da nessuna parte così lontana da solo; nessuno può tornarne indietro da solo.

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The Martian è anche un’altra mirabile avventura nell’animo umano e sorprendentemente commovente di affermazione della vita, ancorata ad una interpretazione incantevole e profondamente complessa di Matt Damon, e centrale per tutta l’operazione del film. Nonostante il massiccio e grande livello generale che è stato coinvolto nella riuscita del film, la regia di Ridley Scott e la sceneggiatura di Drew Goddard lavorano duramente per mantenere il personale e persino intimo al centro dell’intera narrazione. Riuscendo in questo trionfalmente. «Matt Damon era molto eccitato per l’uscita del film …». The Martian è forse un altro esempio della passione contemporanea per la cultura pop degli anni sessanta. Dopo decenni di pubblico disinteresse e di disimpegno, sembra che il programma spaziale sia diventato un punto focale di nostalgica affezione. Forse perchè semplicemente è tanto il tempo trascorso da quando l’uomo ha messo piede sulla Luna che l’umanità è cresciuta fino a perdere l’ambizione di quegli anni pionieristici e di scoperta della nuova frontiera, forse perchè era parte di un impegno più ampio con un idealismo utopico che sembra più lontano ogni anno che passa. E’ anche facile essere cinici a riguardo del programma spaziale, naturalmente. Dopo tutto, la cultura popolare non sembrava più essere innamorata della NASA nel corso degli anni Ottanta e Novanta.

Quando i lanci delle missioni hanno cominciato ad essere regolarmente teletrasmessi in mondovisione, sembrava di essere arrivati ad un punto che nessuno voleva vederli. Quando sempre maggiori finanziamenti sono tati forniti all’organizzazione, hanno fatto sì che l’istituzione divenisse un facile bersaglio per le accuse di spese avventate e per gravi responsabilità e malversazioni fiscali. Anche tenendo conto di tutto compreso il cinismo, c’è una innegabile storia d’emozione, sentimento e persino maestà epica, nel volo spaziale in sè. Mentre ci saranno sempre dibattiti per sui suoi effettivi benefici materiali ottenuti e per i suoi costi impressionanti, l’idea di un’umanità che va oltre il cielo stesso rimane una immagine potente. Cattura simbolicamente tutta la riserva del potenziale umano, la capacità del genere umano di spingere se stesso e di trascendere i suoi limiti in un modo molto reale e molto pratico. Nessuna meraviglia che i programmi spaziali facciano oggi più che mai appello all’epicità di quegli uomini ottimisti e idealisti. Christopher Nolan ha con il suo genio già coltivato un simile terreno nel meraviglioso Interstellar, film che condivide una non piccola quantità del suo DNA con “The Martian”. Matt Damon e Jessica Chastain interpretano ruoli di massimo rilievo in entrambi i film, con Matt Damon il quale effettivamente interpreta qui una sorta di “gemello buono” del personaggio che aveva impersonato in “Interstellar”.

Ci sono anche dei punti di “The Martian” nei quali il compositore Harry Gregson-Williams sembra essere affetto dal citazionismo verso alcuni dei momenti emotivamente più impostati nella memorabile colonna sonora di Hans Zimmer per “Interstellar”. “Interstellar” era imperniato dell’idea di un equipaggio in un lontanissimo e lunghissimo viaggio spaziale come dimostrazione della capacità del genere umano di raggiungere ben oltre i confini stessi letterali dello spazio e delle possibilità, compiendo il primo passo sulla strada di un futuro idealizzato in cui l’umanità potrà trascendere lo spazio e il tempo. “The Martian” è un po’ meno concreto nelle sue metafore. Per “The Martian”, il programma spaziale non è tanto focalizzato su come raggiungere l’al di là dell’esperienza umana, ma sul trascendere i limiti artificiali delle strutture organizzative, in questo caso per prestare un soccorso. I sacrifici umani e l’ingegno sono parte indivisibile della narrazione del programma spaziale, ma sono anche stemperati dal suggerimento che l’attenzione rivolta al cielo ha fornito un terreno comune il quale ha spesso permesso agli uomini di buona volontà di guardare oltre le divisioni e i conflitti. Come tale, ha senso che il programma spaziale debba essere associato con gli ideali utopici degli anni Sessanta.

The Martian è per questo una meditazione meravigliosamente ottimista sulla volontà dell’uomo di spingersi nel perseguimento di un ideale più alto. In questo caso, riportando Mark Whatney a casa. Quando l’astronauta David Scott e lo scultore Paul Van Hoeydonck collaborarono per mettere la targa in memoria “Fallen Astronaut” dedicata a Hadley Rille sulla luna, nel mese di agosto del 1971, la targa toccò un tasto che fece parlare di tutti gli astronauti che erano morti nelle missioni di cammino dell’uomo verso le stelle. Scott consigliò a Van Hoeydonck che la scultura non avrebbe dovuto essere maschile o femminile, di etnia identificabile, ma che sarebbe dovuta servire come una espressione universale di ricordo per tutti coloro che si erano sacrificati per riuscire a giungere fino lì. La targa alla memoria venne creata come un atto apolitico, e senza l’approvazione della NASA. “The Martian” tocca questo sottotesto ripetutamente. Quando la direzione della NASA cerca di capire cosa fare, si ritrova a dover soppesare il futuro del programma, contro i rischi necessari per riportare a casa l’astronauta perduto. «Si tratta di più di un uomo», insiste Teddy Sanders, mentre cerca di nascondere le sue emozioni. «No», risponde il supervisore delle missioni Mitch Henderson, semplicemente. «Non si può». Questa è l’essenza della visione del mondo che viene distillata in questo singolo e semplice scambio di battute, presente in “The Martian”.

La Sceneggiatura di Drew Goddard e la regia di Ridley Scott abilmente e ripetutamente rafforzano l’idea che dovrebbero esistere strutture organizzative per proteggere e salvaguardare i singoli piuttosto che se stessa come organizzazione. Questo è più evidente nella struttura del film. Mark trascorre la maggior parte del film a più di duecento milioni di miglia dal resto del cast, e da tutto il lavoro che viene svolto sulla Terra per riportarlo a casa. Mark potrebbe essere l’unica persona in tutto il pianeta, ma “The Martian” ci suggerisce che non è mai veramente solo. Scott sottolinea molto abilmente l’importanza del cast di supporto sovrapponendolo di una variegata scelta di attori riconoscibili. Il film trova infatti spazio per Jessica Chastain, Kristen Wiig, Jeff Daniels, Michael Peña, Sean Bean, Kate Mara, Sebastian Stan, Aksel Hennie, Chiwetel Ejiofor, Benedict Wong, e Donald Glover. Sembra veramente come se nessun ruolo sia troppo piccolo per essere riempito da un attore riconoscibile – un modo molto efficace per illustrare che questi personaggi sono tutti a loro modo importanti. Più di questo, la regia di Scott enfatizza molto abilmente il conflitto tra la struttura organizzativa di una istituzione come questa e le persone che ne fanno parte. In particolare, Scott utilizza il 3D per alcune composizioni molto intelligenti. In un paio di occasioni occorse per tutto il film, una rappresentazione bidimensionale di un oggetto (una conferenza televisiva, una fotografia, una mappa) lascia il posto alla realtà alla base di esso – queste inquadrature che per come sono costruite acquistano letteralmente una dimensione extra- appena Scott le popola di personaggi.

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La narrazione centrale vede Mark che registra la sua esperienza attraverso dei video che ufficialmente non sono soltanto un veicolo per l’esposizione o lo sviluppo del personaggio. Tali registrazioni video servono come un altro esempio delle possibilità che soltanto l’individuo può cercarsi e trovare all’interno delle costrizioni e delle rigide maglie detatte dalle regole, che si trovano nelle istituzioni; i video di Mark offrono molto più di un semplice resoconto oggettivo delle sue esperienze e delle decisioni da prendere, offrono uno sguardo nel personaggio che le sta facendo. Ripetutamente, l’ingegnosità personale di Mark ne esce come visione rinforzata rispetto alle decisioni prese attraverso comitati e gerarchie organizzative. “The Martian” suggerisce ripetutamente che la semplicità è la chiave. Mark è in grado di elaborare un metodo di base di comunicazione con la NASA evitando l’eccessivamente complicato alfabeto inglese in favore di qualcosa di più pratico. Il primo tentativo di offrire a Mark assistenza viene sabotato dalla complessità stessa questione.

Quando l’astrofisico Rich Purnell ha la grande idea che imprime una svolta alla ricerca del modo migliore per salvare Mark, essa ci viene esposta con cinque semplici parole che formano un frammento di frase, «Sarebbe quasi più facile a …». Si scopre infatti, che è sicuramente più facile … In un certo senso, questa preferenza per semplicità vale tanto per la struttura narrativa del film, come anche per la tematica centrale. ”The Martian” evita infatti di complicare eccessivamente la trama. Ci sono solo una manciata di importanti sviluppi nel corso di due ore e venti minuti quanti dura il film, che permettono alla trama (e ai personaggi), di avere il loro spazio per respirare. Le dinamiche centrali sono tutte semplici, ma sono ben esplorate e sviluppate. In effetti, il film viene sviluppato molto bene; al pubblico è consentito di trovare un senso del tempo che passa per la lunga infinita attesa da parte del protagonista Mark, in modo da sottolineare l’escalation della sua crisi. (Se “The Martian” ha un difetto, è che alcune sue parti sembrano un po’ troppo pulite e ordinate. Nonostante l’enfasi posta sull’importanza dell’individuo nei più grandi sistemi strutturati, alcuni dei personaggi possono si potrebbero occasionalmente sentire come fossero semplicemente a riempire dei ruoli narrativi. In particolare, vi è un rapporto interpersonale tra due membri della missione su Marte che sembra esistere semplicemente in modo che il film possa avere un rapporto interpersonale tra due membri della missione su Marte, perché questo è tematicamente importante per un film sul rapporto tra le persone e le istituzioni .) Per tutto quel che “The Martian” acquista nel quadro di una narrazione molto classica, lo si percepisce sorprendentemente moderno. L’esperienza di Mark potrebbe essere facilmente tradotta nell’Oceano Pacifico, un punto a cui si allude a un certo passaggio del film; tuttavia, la storia stessa è sicuramente moderna. I video blogghettari di Mark Whatley e attraverso di essi il suo impegno con gli spettatori evocano il meraviglioso lavoro svolto da Chris Hadfield per ottenere questo risultato impegnativo.

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Il dialogo di Mark è consapevolmente tagliato su misura per l’era di Internet. Di fronte alla possibilità della propria morte, riflette, «Sto per avere un altro dottorato, ma a chi fregherà mai qui a 140 milioni di chilometri dalla Terra!». Questo per non parlare di come l’autore del best seller da cui il film è tratto, Andy Weir, abbia sviluppato la storia; “The Martian” è infatti molto letteralmente il prodotto dell’era di Internet, in origine pubblicato come web novel a puntate su di un blog specializzato. Per tutta la relativa semplicità della narrazione, c’è qualcosa di molto fresco e molto interessante nel modo in cui la storia viene sviluppata. La regia di Ridley Scott, anche se certo non si potrebbe definire come sperimentale, è moderna e in sintonia con un 2015 denso di grandi titoli di fantascienza. “The Martian” è in grande parte il risultato del lavoro di tutti i soggetti coinvolti; e si tratta di un risultato stellare.

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