Ricordando Piazza Tienanmen

di Mariarosa Signorini.

Era il 4 giugno 1989 quando i carri armati dell’Esercito di Liberazione Popolare cinese uccisero in Piazza Tienanmen centinaia di persone, ponendo fine alle proteste degli studenti che reclamavano la democrazia.

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La protesta, iniziata il 15 aprile, era guidata da studenti, intellettuali ed operai ed era fortemente ispirata da quegli avvenimenti che avevano da poco rivoluzionato il mondo: La caduta del muro di Berlino e molti regimi comunisti europei soppiantati. Ricordi, tanti ricordi per una maturanda delle scuole medie superiori (io!), che si apprestava a divenire adulta con la speranza che il mondo potesse divenire più libero e giusto.

Tutto trae origine dalla morte per arresto cardiaco di Hu Yaobang, segretario generale del Partito Comunista Cinese. La protesta ebbe inizio in modo relativamente pacato, nascendo dal cordoglio nei confronti del politico, popolare tra i riformisti, e dalla richiesta al Partito di prendere una posizione ufficiale nei suoi confronti. La protesta divenne via via più animata, anche a seguito dei primi scontri tra manifestanti e polizia. Gli studenti si convinsero che i mass media cinesi stessero distorcendo la natura delle loro azioni.

Il 22 aprile, giorno dei funerali, gli studenti scesero in Piazza Tienanmen a Pechino, chiedendo un incontro col primo ministro Li Peng. Quest’ultimo e i media ufficiali cinesi ignorarono la richiesta e  gli studenti proclamarono uno sciopero generale presso l’Università di Pechino. All’interno del partito vi erano posizioni diverse: il nuovo segretario generale, Zhao Ziyang, era orientato su un’opposizione moderata e non violenta della manifestazione, egli voleva ricondurre il dibattito in ambiti istituzionali. Il primo ministro era per la linea dura, convinto che i manifestanti fossero manipolati da potenze straniere. Chiese, pertanto, consiglio a Deng Xiaoping, che, nonostante si fosse ritirato da tutte le cariche più importanti, era presidente della potente Commissione Militare.

Il 26 aprile fu pubblicato sul Quotidiano del Popolo un editoriale a firma di Deng Xiaoping, con il quale accusava gli studenti di complottare contro lo Stato e fomentare agitazioni di piazza. Ciò fece infuriare gli studenti, che il giorno dopo, in numero impressionante (circa 50.000) scesero nelle strade di Pechino, chiedendo che tale dichiarazione venisse ritrattata. Il 4 maggio 1989 (data simbolica poiché coincideva con quanto avvenuto nel 1919 ad opera del movimento studentesco culturale e politico anti-imperialista) circa 100.000 persone marciarono sulle strade di Pechino, chiedendo più libertà nei media e un dialogo formale tra le autorità del partito e una rappresentanza eletta dagli studenti. Seguì una blanda tregua, senza che gli studenti ottenessero alcunché, in cui si inserirì la visita ufficiale di Gorbačëv, Segretario del PCUS, – già programmata da tempo – dalla quale il movimento studentesco prese la forza per richiedere riforme democratiche, sulla scia di ciò stava avvenendo in Unione Sovietica e nell’Europa dell’Est. Iniziarono manifestazioni di sciopero della fame e di occupazione di Piazza Tienanmen.

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La protesta assunse così un carattere vasto e popolare e i dirigenti cinesi si trovarono di fronte ad una grave impasse. Di fronte all’immobilismo attendista della maggior parte di loro fu ancora Deng Xiaoping a prendere in mano le redini, optando, con gli anziani del Partito, per la repressione militare. Fu, pertanto, promulgata la legge marziale, già promulgata una sola volta in Tibet. Zhao Ziyang fu l’unico dirigente del PCC a votare contro la promulgazione della legge marziale e sfidò apertamente il Partito, presentandosi in piazza tra gli studenti per cercare di convincerli a porre termine all’occupazione (tale suo gesto lo pagò con la rimozione da qualsiasi carica politica e la condanna agli arresti domiciliari a vita). All’inizio l’esercito incontrò una forte resistenza della popolazione e non usò la forza, determinando una paralisi di 12 giorni. Agì ancora Deng, quale presidente della potente Commissione Militare, che ordinò alle truppe di usare la forza. La notte del 3 giugno l’esercito iniziò quindi a muoversi dalla periferia verso la piazza e, a causa delle resistenze che incontrarono, aprirono il fuoco. Nonostante non sia possibile una ricostruzione precisa dei fatti, fu un massacro. Ancora oggi le stime dei morti variano, a seconda delle fonti. Amnesty International ha stimato che il loro numero è superiore a mille, forse 1300 o anche più, compresi i giustiziati per “ribellione”, “incendio di veicoli militari”, ferimento o uccisione di soldati e reati simili.

Simbolo della protesta è la foto dello studente che, da solo e disarmato, si posiziona davanti ad una colonna di carri armati per fermarli, il cosiddetto “rivoltoso sconosciuto”. Una domanda sorge spontanea: il mondo, la Cina sono veramente cambiati?

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