George Lincoln Rockwell – il nazista degli USA

di Enrico Bulleri

George Lincoln Rockwell fu uno dei personaggi che animarono la vita sociale degli USA negli anni ’60

USA

Si è fatto un gran parlare in questi ultimi anni, grazie alla notorietà mediatica internazionale guadagnata, del Partito di Alba Dorata in Grecia, e del suo aperto rifarsi al Partito Nazionalsocialista fin dall’iconografia e dai colori del suo simbolo e delle sue bandiere. Pochi ormai lo sanno, ma l’unica Nazione al mondo in cui un Partito o un movimento politico che apertamente fin dal nome si richiamasse o si ponesse in continuazione con il dissolto NSDAP hitleriano ha potuto essere fondato, e permesso dalla Costituzione, sono proprio negli USA, quando nel lontano 1959 in piena Guerra Fredda, George Lincoln Rockwell fondò il Partito Nazista Americano (American Nazi Party- ANP). George Lincoln Rockwell si era già dedicato con scarsa fortuna alla politica nelle file dei Repubblicani, all’età di quarant’anni, secondo un rapporto dell’FBI dell’epoca, dopo vari fallimenti nel campo lavorativo e con una “insopprimibile ma perennemente frustrata, necessità di successo e fama” raccolse la sua personale fortuna e visibilità con questa iniziativa provocatoria, riservandosi da subito non la carica di “Segretario”, ma quella di autoinvestitosi “Comandante”. La formazione politica non si discostava molto dai fondamenti politici e ideologici del Partito hitleriano, proclamandosi in diretta prosecuzione di esso, e si prefiggeva come punto uno del suo programma d’azione la trasformazione degli USA da repubblica federale a “Reich”. La sede centrale del Partito era naturalmente ubicata in uno Stato del profondo sud, in North Franklin Street, ad Arlington nella Virginia, ex- capitale della Confederazione schiavista e secessionista durante la Guerra Civile. Comandante George Lincoln Rockwell è stato un personaggio paradigmatico dell’America nei violenti e convulsi anni sessanta, dell’escalation guerrafondaia in Vietnam e delle lotte per i Diritti civili oltre che della lotta contro la segregazione razziale e le violenze del KKK contro i neri, negli Stati del Sud dell’apartheid. Nel 1960, riuscì a tenere un provocatorio comizio in Central Park a New York, sfruttando la cosìdetta “zona libera per i forum”, che consente a chiunque di poter parlare ed esprimere le proprie idee di fronte ad un capannello di persone, un pubblico piccolo o grande che sia, o a chiunque si faccia catturare dalle parole in libertà espresse dal predicatore di turno che mette in guardia sull’avvento dell’Apocalisse, o dallo sciroccato non religioso di turno. Diecimila ebrei della comunità newyorkese andarono a contestarlo garantendo così la visibilità e quella folla che egli aveva sempre inseguito. La reazione dei contestatori fu anche violenta, arrivando a tirargli di tutto, così come per gli scontri con le camicie brune che sempre lo seguivano, a garanzia del servizio di sicurezza personale per il “Führer americano”, uno degli uomini più odiati d’America di quegli anni, e fra i massimi propagatori e istigatori all’odio contro gli ebrei ma non inizialmente contro i neri. Fu tutto questo quindi rigirato ovviamente dalla propaganda dei neonazisti come la “libertà di parola” non venisse tenuta in così buona considerazione, dai contestatori. D’altronde, ricordando da fin troppo vicino l’azione di provocazione messa in atto con il solito rinnovato successo dell’ultimo epigono Matteo Salvini nell’Italia di questi mesi, era esattamente quello che Rockwell si aspettava e auspicava, forse solamente sorpreso dal numero di persone presentatesi in testimonianza dell’antinazismo. Da questo punto di vista, Rockwell fu sommerso dalla riprovazione, così come la sua isteria vendicativa. Iconograficamente celebre, nella sua inquietante bizzaria, resta la sua apparizione in piena uniforme da Stormtrooper, una volta che seguendo la sua nera scenografia, si tolse gettandolo nel momento prescelto, il cappotto che la celava. Scatenando così una prevedibile e forte, reazione emotiva. Rockwell per tutta la vita dovette necessariamente nutrirsi dell’elemento per lui indispensabile, circondarsi di persone che lo odiassero e di nemici, su cui far riversare altro odio, elemento che lo condurrà ben presto alla sua predestinata fine. Presentatosi a Central Park nella democratica New York per una prevedibile provocazione, si mostrò anche negli Stati del Nord per quello che realmente era. L’ex Comandante della U.S. Navy Rockwell si pavoneggiava sorridente in mezzo alle sue camicie brune, con le sue false promesse e i ridicoli programmi che non potranno non ricordare immagini di questi ultimi mesi di campagne elettorali, qui dalle nostre parti. L’incontro-scontro personale tra l’”ariano” Rockwell e i suoi opposti ebrei, tra materia razziale e anti-materia si era compiuto. Un’esplosione era inevitabile. L’atmosfera via via che Rockwell pronunciava il suo discorso di incitamento all’odio verso gli ebrei si surriscaldava e divenne incandescente. Convulsamente, tra le urla hitleriane degli affondi di Rockwell, iniziarono gli scontri. Il vantaggio personale così come il coraggio vennero meno, di fronte ad uno scontro che stava diventando troppo dispari per Rockwell e i suoi a causa delle forze che erano affluite nel parco. In una battaglia urbana incredibile, per la storia di New York e per chi non ha potuto assistervi, si scatenò uno dei più grandi scontri di folla mai visti. Nel mezzo di questo genere di situazione, Rockwell fu sbattuto e quasi strozzato nel mezzo della strada, sottratto soltanto all’ultimo dalle sue guardie del corpo sopraffatte dalla folla urlante.

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L’indiavolato attacco sorprese i neonazisti da tutti i lati, con sputi e sangue da ogni parte, e con Rockwell il quale avrebbe ancora voluto essere l’eroe solitario della razza Bianca che si ritagliava un percorso di sangue e ossa rotte per tutta New York City. Non riuscirono a farlo cadere a terra, ma fra le tante mascelle incrinate o peggio, pare ci fosse stata anche la sua. A quel punto, una squadra di poliziotti riuscì a infilarsi nella ululante e oscillante folla facendosi largo a furia di manganelli. Rapidamente ebbero la loro razione di randellate anche le vittime della situazione ovviamente gli ebrei, con d’altro canto i poliziotti, che ovviamente, si gustavano il loro sport preferito. Essi tracciarono un sentiero tra gli schizzi di sangue a Rockwell e i suoi adepti che stavano decisamente soccombendo nella lotta, scortandolo sui corpi gonfi di botte degli ebrei caduti. Rockwell ne emerse pieno di tagli e lividi. Anche la sua uniforme era in stato decisamente impresentabile. George Lincoln Rockwell fino a che non ebbe la sensazionalistica idea di fondare il Partito Nazista Americano e di autoproclamarsi suo “Comandante”, non aveva combinato granchè dalla sua nascita in Illinois, il 9 marzo 1918. La sua giovinezza mai avrebbe fatto presagire gli allora ancora lontani campi di battaglia di New York City. Egli avrebbe invece desiderato diventare un grafico commerciale di successo, ambizione che sembrava potersi soddisfare quando vinse il primo premio in un concorso nazionale per la Fondazione della Lotta contro il cancro. Ma anche per quanto lo riguardava, la WWII avrebbe scompaginato i suoi piani per sempre. Arruolatosi volontario come pilota della U.S. Navy, prima ancora dell’entrata ufficiale dell’America nel conflitto, come milioni di altri americani ancora credeva che Hitler nei suoi piani si stesse preparando a prendersi Coney Island e la Statua della Libertà. Decorato alla fine della guerra per avere combattuto secondo il suo dovere contro gli U-Boot tedeschi, si ri-arruolò per la guerra di Corea, arrivando al grado di comandante. Di stanza in Islanda, conobbe e sposò una bella donna autoctona, con la quale avrebbe messo su famiglia negli anni cinquanta, e beato lui. Ma dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, Rockwell era diventato sempre più turbato seguendo la sua personale analisi, si stava per lui delineneando sempre più chiaramente quella che era la “condizione di deterioramento della civiltà occidentale”, e per la quale scoprì come antidoto il Mein Kampf. Consapevole finalmente del suo “vero destino”, avrebbe dunque fondato il Partito Nazista Americano, compiendo così quella che secondo i neonazisti è una profezia che il Führer avrebbe fatto poco prima di morire, in una pagina deel suo testamento politico redatto nei primi mesi del 1945 e ultimi della guerra, e poi lasciato nel Bunker della Cancelleria: “La lotta contro gli ebrei non verrà rinnovata per prima in Europa, ma anche negli Stati Uniti. In 25 anni, gli americani cominceranno ad avvertire sulla loro pelle la questione ebraica “. Nel 1958 a Rockwell parve che la lotta si stesse rinnovando, il popolo americano era secondo la sua visione troppo compiacente e soddisfatto di sé per poter compiere la rivoluzione “bianca”. Il disordine sociale provocato dalle lotte razziali, il caos economico, il Vietnam e ciò che Rockwell vedeva come “marciume culturale” erano secondo il nascente American Nazi Party il tradimento degli anni ’60 che ancora giacevano davanti da trascorrere. A dispetto del suo aspetto e del suo modo di fare così gentile e apparentemente apatico- ben reso dall’impersonificazione di Marlon Brando nell’ultimo episodio della seconda stagione di “Roots/Radici”-, l’attivismo di Rockwell si era ben presto adoperato in una operazione indefessa di propaganda alle coscienze bianche che potesse determinare uno strappo in quella che egli definì la “cortina di carta”, indicante il boicottaggio ebraico nei media e nei giornali di tutte le informazioni su nazionalsocialismo americano. Anni di sacrifici abbastanza ingrati avrebbero secondo lui dato i loro infuocati frutti, accesi dalla miccia delle dimostrazioni dei neri nei quartieri operai bianchi del Midwest. Cavalcando la cresta dell’onda di risentimento popolare degli Stati del Sud contro l’integrazione forzata, il comandante Rockwell si ergeva con pose come quelle del Gruppenführer Henry Gibson di “The Blues Brothers” a volersi porre tra i grandi Padri e Statisti della Nazione, mentre girava la Nazione assieme ai suoi guardiaspalle con il sinistramente celebre pullmino VW ricoperto di scritte incitanti all’odio razziale e alla segregrazione “Hate Bus”, a raccogliere la la gratitudine che si meritava. “Gli ebrei saranno finiti nel ’72! “, Uno slogan che venne spesso ripetuto nel suo ultimo periodo di vita, rappresentava le “grandi speranze” del movimento allorchè esprimeva la candidatura di Rockwell per la presidenza degli Stati Uniti, alle elezioni di quell’anno. Anno al quale non arrivò mai, vivo. La popolarità di Rockwell verso la fine del decennio dei sessanta era comunque tale che anche se ovviamente non avrebbe avuto alcuna chance per il più alto posto in carica in nessun giorno su questa Terra, ben rappresenta il tragico clima di violenza interna negli USA dell’epoca. Egli, venne infatti assassinato e il suo assassinio è ancora per molte delle circostanze in cui avvenne e maturò avvolto nelle circostanze, sempre ad Arlington in Virginia. Ma chi era davvero George Lincoln Rockwell? Il Movimento Nazionalsocialista americano del dopoguerra era dunque rappresentato da questo modello estetico dell’americano prestante. 1,86 di altezza, certamente di corporatura robusta e bell’aspetto, atletico, vigile e dall’eloquio insolitamente arguto per essere un nazista, era la quintessenza americana dell’eroe popolare nello stesso stampo, fisicamente in ogni caso, come un John Wayne o un Clark Gable, con un innegabile richiamo carismatico molto simile per doti oratorie, a quello al quale l’animo dell’americano medio è più sensibile. Infatti nonostante ad alcuni osservatori, egli sembrasse un incrocio tra James Garner e un pugile suonato, in particolare quando in combattimento, il suo dinamismo pareva lo stesso coltivare la fedeltà nelle amicizie fra le quali ricercò a lungo, rimanendone deluso, quella strategica di Malcolm X, e l’affettuosità come padre di famiglia. Nelle suppostamente più alte ma condannate al velleitarismo più effimero, delle tradizioni di una leadership nazionalsocialista statunitense, egli costantemente si lanciò senza esitazione tra i nemici che non mancavano mai di sopravanzarlo e sopraffarlo in risposta e reazione . Quando la prima bandiera Viet Cong fu pubblicamente portata in una sfilata negli Stati Uniti da una manifestazione di sinistra per le strade di Boston nel 1956, Rockwell si lanciò nella manifestazione marxista al sol scopo e con l’ottenuto risultato di farsi arrestare e mandare in prigione. Come disse con la solita considerazione non immodesta di sé che lo contraddistingueva, nella famosa intervista realizzata per Playboy dallo scrittore e giornalista nero Alex Haley, di “Radici”, e poi ripresa nella trasposizione del famoso sceneggiato tv: – “Io stavo solo cercando di annullare il danno che in piccola parte che avevo contribuito ad arrecare al nazionalsocialismo, in quanto ingannato militare americano, nella seconda guerra mondiale.” L’eredità di Rockwell Per i più oggi George Lincoln Rockwell non è mai esistito. Certo, a parte la propaganda ovvia della sua parte contro “i nemici della razza bianca” colpevoli secondo loro di questo oblìo, è innegabile che ci sia stato un certo tentativo di cancellare il suo nome dalla storia americana, e precisamente da quella degli anni sessanta delle lotte e delle leggi per i pari diritti civili alle minoranze razziali. Ma per quanto ci possa essere evidentemente stato uno sforzo in tal senso, le immagini e le azioni di Rockwell e dei suoi miliziani sono comunque rimaste sempre incise a testimoniare, nella memoria dei milioni di americani che gli hanno vissuti e vi hanno assistito, a quel turbolento decennio che ovvero furono gli anni sessanta. Mentre gli scritti e le parole declamate in tanti discorsi e registrate da Rockwell continuano ad essere diffuse e ad ispirare le nuove generazioni di estremisti di destra dell’ANP e dei vari altri Movimenti per la supremazia della razza bianca presenti e mai così ritornati in attività e azione di compiuto proselitismo come sotto la presidenza di Barack Obama, negli USA degli anni 2009-2015. In un certo senso, 48 anni dopo la sua morte possiamo dire che egli non è morto prima del suo tempo in quanto ne è stato una delle espressioni in negativo più rappresentative, così come pochi altri. Si è trattato, dopo tutto, di una morte predestinata la sua, quella di rientrare nella stagione degli eclatanti omicidi politici nell’America degli anni sessanta che era iniziata con l’assassinio del Presidente John Kennedy il 22/11/1963, e proseguita con l’assassinio di Malcolm X il 21/2/1965, di Martin Luther King il 4/4/1968, di Robert Kennedy il 6/6/1968, e nel mezzo dello stesso Rockwell il 25/8/1967. Dopo avere già subito un attentato alla vita il 28 giugno sempre ad Arlington al quale riuscì a sopravvivere, compiuto da sconosciuti e sul quale non si riuscì mai a fare chiarezza, Rockwell cadde così a 49 anni. Non si è mai esattamente saputo se per mano dei suoi nemici di razza o per un regolamento interno ai movimenti della destra razzista e suprematista bianca, in quanto venne inizialmente arrestato e accusato del suo omicidio un sospetto, John Patler, che era stato espulso nell’aprile prededente dall’ANP, secondo la conferenza stampa nottuna del successore Matt Koehl alla guida del Partito, per avere pronunciato “Discorsi bolscevichi”. La morte violenta ha serrato e determinato nel ricordo la parabola di vita di Rockwell e del decennio violento che ha vissuto e attraversato, da protagonista di alquanto dubbia reputazione. Nell’America del 2015 egli è ovviamente ricordato, onorato e celebrato dagli estremisti di destra, come colui che avrebbe realizzato per il Movimento un’eredità di idee e azioni incomparabilmente più ricche di quelle che poi effettivamente riuscì a compiere in vita, praticamente santificandolo come sacrificatosi personalmente e nel sangue, per far ottenere i massimi vantaggi alle idee delle formazioni politiche espressione del nazionalismo bianco, e come tale il suo nome è utilizzato ancora oggi e portato da coloro che gli sono sopravvissuti allora, come dalle ultime generazioni di fanatici ed estremisti, per la continuazione e sopravvivenza di queste stesse idee. O ancora è storicamente menzionato come colui che praticamente da solo avrebbe sollevato le insegne naziste dalle ceneri di Berlino, nei cieli d’America. Il primo ancora, ad accorgersi e fare tesoro del cercare di rappresentare persino l’ideologia nazista in maniera e modi accattivanti per i media, professionalmente e cercando sempre di determinare una propaganda alla moda dei temi caldi della politica basata sulle paure e le minacce vere o presunte, ingigantite, agitate, del momento, a rivendicare una appartenenza orgogliosa alla propria lotta, a fare suadente opera di proselitismo mirata a chiunque volesse unirsi nella concezione di un’America dalle razze rigidamente separate, così come era anche negli obiettivi propagandistici della Nazione dell’Islam. L’Organizzazione islamica afroamericana radicale ed estremista di Elijah Muhammad “L’Hitler dei neri”, in rapporti amichevoli con Rockwell ed elogiato, in quanto pur nella profonda diversità di pensiero e di azione delle due organizzazioni, il nemico comune da combattere e abbattere era da entrambi identificato negli ebrei. Tanto che, incredibilmente, in occasione delle celebrazioni del Saviour’s Day a Chicago nel 1962, Rockwell fu invitato a pronunciare un discorso alla moltitudine di membri della Nation of Islam ivi convenuti. La maggior parte di loro lo fischiò e interruppe più volte il suo discorso, anche gridando parole di scherno verso le sue idee e gli ideali professati, mentre Muhammad non fu della medesima opinione e anzi, si dimostrò entusiasta ed ebbe a rimproverare tutti coloro che si erano dimostrati contestatori di Rockwell, nel numero dell’aprile 1962 della rivista dell’Organizzazione, Muhammad Speaks. Dopo i suoi funerali avvenuti il 30 agosto 1967, il corpo di Rockwell venne rifiutato dal Pentagono per la sua allocazione nel cimitero militare nazionale di Arlington, laddove avrebbe dovuto essere sepolto come reduce, ufficiale e decorato di due guerre, in quanto i suoi seguaci rifiutarono di togliere la svastica delle loro insegne e delle loro corone, al loro ingresso. La bara fu quindi fatta ritornare al Quartier Generale del Partito di Arlington, dove venne disposto di fargli avere un altro funerale e una inumazione segreta il giorno successivo. John Patler venne poi comunque in base a dubbie testimonianze e riconoscimenti da distanza dei testimoni di quel giorno, condannato quale l’uomo che armato di fucile, sparò da un tetto all’auto in cui siedeva alla guida Rockwell. Nel dicembre del 1967 gli vennero quindi comminati 20 anni di prigione. La vita di Rockwell, abbia avuto degli aspetti persino di insospettabile nobiltà o meno nel suo perseguire le proprie idee sbagliate che fossero, è ben riassunta e se vogliamo ridotta, nelle laconiche parole del padre 78enne, alla morte del figlio : “Non sono sorpreso affatto. Ho atteso questo momento per molto tempo.”

 

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