Colonizzare Marte? Prima noi stessi

di Juanne Pili.

Siamo in grado di modificare dei batteri per produrre biocombustibili, in futuro potremmo colonizzare nuovi pianeti, come Marte. Eppure non riusciamo a cambiare il sistema in cui viviamo. Ci siamo evoluti come gli animali che selezioniamo negli allevamenti.

progressoQueste elucubrazioni sono in parte frutto della lettura di una vecchia intervista di Cristiana Pulcinelli (l’Unità) al Prof. Yuval Noah Harari, dove parla del suo ultimo saggio, Da animali a dèi. Breve storia dell’umanità (Bompiani), libro che metto in lista tra quelli da leggere, quando avrò finito la montagna che ancora devo smaltire.

Secondo Harari il segreto del nostro successo evolutivo starebbe nella capacità di cooperare e di cambiare il nostro ambiente; se la prima caratteristica è presente in molti animali, saremmo invece i soli a cambiare il mondo che ci circonda.

Siamo d’accordo. Crediamo, anzi, che questa capacità sia il paradigma dell’Umanità. Va da se che qualsiasi comportamento rispecchiante uno stato di cose presente sia disumanizzante. Ecco perché, come nota Harari, «i progressi tecnologici e il crescente potere non si sono tradotti in una vita migliore per l’essere umano. La vita di un operaio in Cina oggi è per certi versi peggiore rispetto a quella di un cacciatore-raccoglitore di 70.000 anni fa». Questo fenomeno ci ricorda uno studio che ormai è un classico della filosofia contemporanea: Dialettica dell’Illuminismo, di Max Horkheimer e Theodor Adorno, del 1947, che per vie diverse da Harari si accorgono di come il progresso, portatore di rivoluzioni emancipative, si riveli a sua volta un sistema alienato e alienante. Il titolo della loro opera significa non a caso “contraddizioni dell’ideologia liberale” (Nda). Ci allontaniamo quindi radicalmente dal ragionamento di Harari per arrivare a quello che secondo noi è il vero nocciolo del problema: L’Uomo continua a cambiare l’ambiente circostante, senza che nulla cambi a livello di sistema. Probabilmente tra qualche decina d’anni arriveremo su Marte e useremo treni supersonici in grado di rendere il nostro Pianeta un vero e proprio villaggio globale, ma il sistema economico che permette queste cose è sempre lo stesso di due secoli fa.

L’Homo Sapiens ha da tempo trasferito alla tecnica le sue prerogative di trasformazione dell’ambiente esterno, creando una bolla all’interno del quale passato e futuro non esistono più. Viviamo in quella che Diego Fusaro ha definito una situazione di «eternizzazione del presente». Tutto è uguale sul fronte occidentale. Vediamo trasformazioni solo in TV – se ci va bene – per il resto ci limitiamo in massa a rispecchiare lo status quo. Non facciamo più sacrifici per i nostri cari ma per salvare i sistemi finanziari; in Europa si deve andare, perché si deve. A scuola e nelle università non si formano più cittadini, bensì vengono prodotti diplomi e lauree. La tecnica riduce tutto a numero e statistica, l’umanità è un mero ostacolo, non il centro da cui parte il cambiamento, ma un oggetto del cambiamento, in mezzo a tanti altri prodotti della bolla.

Ci fa specie quel che afferma lo stesso Harari, quanto la Pulcinelli affronta il tema della «rivoluzione della conoscenza»:

«Il mondo è invaso da sistemi per elaborare l’informazione e algoritmi. Sempre più le nostre decisioni vengono assunte grazie ad essi: le Borse ad esempio già agiscono sulla base di algoritmi e non di interventi umani. Secondo molti, il principale interrogativo economico dei nostri tempi è: a cosa servono le persone in un mondo in cui le decisioni possono essere prese molto meglio da un algoritmo? Oggi Google fa le automobili senza pilota, domani anche medici e giornalisti potranno essere sostituiti».

media_spinE’ come se l’Uomo, dalla rivoluzione agricola in poi, imparando ad allevare terre ed animali sia arrivato ad addomesticare se stesso, chiudendosi egli stesso in un recinto, che presentandosi ormai altro rispetto ad esso, arriva addirittura a dominarlo. Questo è quel che si intende per «alienazione», il fatto che sia stato Marx ad accorgersene per primo – passando per Hegel – non significa affatto fare apologia di regimi totalitari vari eventuali, anzi, ci aiuta a vedere meglio il totalitarismo attuale, più forte che mai, ben lungi dal non essere una ideologia vera e propria: Stiamo parlando del pensiero mercatista dove carri armati e campi di sterminio sono sostituiti dalle troike internazionali e dalle agenzie di riscossione debiti.

Ecco quindi che il “successo” dell’Uomo è puramente fittizio. Non si tratta altro che di una prigione. Il cambiamento stesso è reso impraticabile allo stato attuale grazie al fenomeno della specializzazione, che oltre a rendere gli scienziati degli “ignoranti relativi” (dotti nella loro materia e ciechi in tutto il resto) ci toglie anche la capacità di critica, in quanto non possiamo formulare visioni d’insieme, perché questo implicherebbe mettere in discussione il sistema culturale in cui viviamo. Possiamo modificare i batteri per fargli produrre biocombustibili, ma non ci è dato cambiare il sistema sociale; tutto ciò che possiamo fare è limitarci ad “osservare”, termine che non a caso si usa come sinonimo di accettazione passiva di un dogma: Noi “osserviamo le leggi” come osserviamo la realtà sociale presentataci in termini tecno-scientifici, ovvero come fosse una realtà fisica. Eppure ci sembra che il PIL ed il debito pubblico siano cose ben diverse dalla forza che fa cadere i gravi e orbitare i corpi celesti.

Come già accennato, in quest’ottica l’Uomo perde la sua posizione centrale, finendo per essere addirittura un ostacolo. Secondo Harari la felicità dei singoli, un tempo non considerata di primaria importanza – con buona pace di Stoici ed Epicurei – oggi almeno verrebbe rivalutata da nuove scienze come la psicologia e la sociologia:

«Negli ultimi venti anni la psicologia, la biologia e anche l’economia hanno cominciato a interessarsi di questo tema. E si è cominciato a capire che la vera misura del successo non è data dal tasso di crescita del Pil, ma dal tasso di felicità».


A ben vedere invece anche queste hanno ben presto assunto le sembianze della tecnica, presentandosi come strumenti per modificare noi stessi, al fine di adattarci al sistema, ben lungi dall’adattare il sistema a noi
. Un fenomeno emblematico di questo paradosso sta nell’invenzione di nuove malattie, che non sono tali in relazione allo stato del corpo, bensì all’ottimizzazione di questo sul posto di lavoro o in società. Così negli armadietti dei bagni anglosassoni abbondano pasticche di ogni tipo, mentre le galere si riempiono di poveri disgraziati, rei di essere stati trovati con qualche grammo in più di marijuana. Questo succede perché ci chiediamo come raggiungere la felicità avendo come paradigma un’idea di essa mutuata dal sistema vigente. Eppure è lapalissiana l’origine dell’infelicità: Sta nelle difficoltà ad integrarsi in un sistema che ci è vietato cambiare se non al prezzo di diventare soggetti nosocomiali. Se il mondo così com’è non ti piace, il problema sei tu. Non a caso l’invenzione delle malattie ha una storia molto più lunga di quanto pensiamo. Comincia più o meno durante il regno di Luigi XIV, quando si cominciano a popolare i primi manicomi, dove spesso finivano dentro i ribelli, quelli che più di tutti minacciavano il potere, in quanto lo mettevano in discussione, con la critica o con lo stile di vita.

«Conosci te stesso» è l’antica massima che noi attribuiamo – forse a torto – a Socrate. Si è discusso molto sul significato. Una delle interpretazioni più plausibili è che si riferisca alla chiave della felicità: Si è felici solo se si può essere se stessi. Noi siamo Homo Sapiens, ovvero, esseri nati per modificare l’ambiente circostante. Dopo 5mila anni siamo diventati animali culturali, come tali non possiamo permetterci di rispecchiare un sistema culturale dato; è nostro dovere, come membri della specie, modificarlo. Il mondo si può cambiare, nella misura in cui è possibile respirare. Se possiamo pensare di colonizzare Marte, possiamo anche pensare un nuovo modello di società.

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