Cesare Pavese – Il Mestiere di Vivere

di Enrico Bulleri.

Cesare Pavese e il mistero dell’esistenza, che bussa alla porta nei momenti di maggiore solitudine, fino al gesto estremo del suicidio.

cesare pavese

Per ragioni misteriose evidentemente tali solo all’apparenza, le preclusioni determinate dai rapporti sociali dell’oggi e dalle loro convenzioni fanno sì che chi ne sia fuori possa avere esperienza – soprattutto d’estate – del come in Italia la famiglia spieghi tutto, tutto giustifichi, e sia un tutto e totalizzante. L’estate è la stagione per eccellenza che contiene la solitudine. In una certa qual maniera anzi la esalta, la moltiplica, portandola al contempo all’essenziale, è anche per questo che si tratta di uno periodi dell’anno che porta con sé un picco nel numero dei suicidi. In tutta sincerità e senza la minima pretesa di una confessione ma solo di una riflessione, non si può negare che la quotidianità estiva sia quella che forse maggiormente nell’arco di un intero anno ponga in maggiore evidenza e in un senso si potrebbe dire persino liturgico in senso laico, un accentuato “clima di solitudine esistenziale” per dirla con Cesare Pavese (che non a caso proprio a fine agosto decise di porre fine al suo assillante richiamo al suicidio, eseguendolo davvero) e che alcuni milioni di uomini in questo mondo rimangono anche in questa estate perennemente in bilico tra una volontà di ricerca dell’amore e una incapacità strutturale (vuoi per mancanza di abilità sociali, di sicurezza sociale economica, e lavorativa, i motivi possono essere quant’altri) che non li permette di avere un incontro umano e concreto.

«Certo, avere una donna che ti aspetta, che dormirà con te, è come il tepore di qualcosa che dovrai dire, e ti scalda e t’accompagna e ti fa vivere». (Cit. da “Il Mestiere di vivere – Diario 1935-1950” [Prima ed. 1952] Einaudi Tascabili, 2000)

Ancora di più nell’epoca moderna digitale e virtualmente “social” fatta di liquidità e provvisorietà compiaciuta, crudelmente impietosa di ogni tipo di rapporto, ricollegandomi in questo anche al mio precedente scritto sull’argomento.

Molti uomini si rifugiano quindi nella fuga, una fuga tattica dai rapporti e da un destino che non si può evitare, quasi in un masochistico compiacimento nell’avvilimento (se non in una tentata e sempre inutile sorta di psicoanalisi letteraria di se stessi) e cioè dal consapevole destino che si è sempre stati per un qualche motivo – forse imperscrutabile – soli, e come tali sempre si sarà, perseguitati fino alla morte da essa nelle strade di una grande città come di un piccolo paese, di una casa come al lavoro, o in ogni contesto sociale si abbia avuto la ventura di attraversare, nella vita. E che solo rendendola – sempre pavesianamente – precoce attraverso un atto di ribellione come fu il suo coraggioso atto finale, se ne può personalmente uscire, se non da vincitori, malgrado tutto, attraverso l’unica vera possibilità che la vita ci offre, che è appunto questa.

Pavese come purtroppo molti spiriti troppo elevati per i compromessi, i mezzucci, le consorterie di sorta e le mediocrità esistenziali. Aveva alte aspettative dalla vita, nient’altro che la felicità come intesa a naturale espressione della stessa. Per cui:

«C’è un’arte di ricevere in faccia le sferzate del dolore che bisogna imparare. Lasciare che ogni singolo assalto si esaurisca; un dolore fa sempre singoli assalti – lo fa per mordere più risoluto e concentrato. E tu, mentre ha i denti piantati in un punto e inietta qui il suo acido, ricordati di mostrargli un altro punto e fartici mordere – solleverai il primo. Un vero dolore è fatto di molti pensieri; ora, di pensieri se ne pensa uno solo alla volta; sappiti barcamenare tra i molti, e riposerai successivamente i settori indolenziti. [E ancora] Non ci si uccide per amore di una donna. Ci si uccide perché un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria, inermità, amore, disillusione, destino, morte».

Non poteva che dunque collezionare immancabili delusioni, che nelle pagine del suo diario sono con una brillante crudezza descritte nel loro ripetersi come uno schema inevitabile, riversandosi nella creazione di quei famosi e così brillanti aforismi sulle donne, che oggi non potrebbero che immancabilmente vedersi ridurre e tacciare quali misogini.

Ma qual è la misoginia che è prodotta da uno slancio iniziale fisico come morale, da un elevato investimento emotivo dell’uomo, e che poi immancabilmente si scontrano e vengono rottamati, ridotti ad esasperante impotenza d’azione e di realizzazione, dall’incontro con donne che fanno solo soffrire d’insidie e mancanza di interesse o sentimento, inducendo così Pavese a scrivere parole amare come queste:

«Povera gente, i testicoli da cui siamo nati, sono ancora sempre la nostra sostanza. Immensamente più felice è lo scemo, il povero, il malvagio, di cui funzioni il membro, che non il genio, il ricco, l’evangelico, anormale là sotto».

Come per Kierkegaard dunque, in una visione della realtà difficile da improntare alla propria vita, poiché di mesta e dura presa d’atto prima di tutto della razionalità fredda e del laicismo con la quale va affrontata, non vi è dunque via d’uscita possibile dal dolore rimanendo vivi, poiché anche il dolore stesso non serve, non redime. Sempre nel diario de “Il Mestiere di vivere” Pavese annota:

«Ma la grande, la tremenda verità è questa: soffrire non serve a niente».

Non rimane quindi che l’ultima, dolorosa presa d’atto possibile e che per quanto possa non piacere, rimane da fare. Non c’è infatti niente di peggio per un animo pessimista che vedersi confermare in tutte quelle disillusioni nei confronti della società, delle sue gabbie concentrazionarie comportamentali create e imposte dalla psicologia e dalla psichiatria, nei confronti del mondo e in particolare modo nei confronti delle donne e dell’amore, della sfera emotiva dei sentimenti in genere, in anticipazione del suicidio di Pavese che diventerà un fatto vero pochi giorni dopo avere scritto queste righe finali:

«Più il dolore è determinato e preciso, più l’istinto della vita si dibatte, e cade l’idea del suicidio. Sembrava facile, a pensarci. Eppure donnette l’hanno fatto. Ci vuole umiltà, non orgoglio..Tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto. Non scriverò più».

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Aforismi sparsi tratti da “Il Mestiere di vivere”


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027 – “Una donna che non sia una stupida, presto o tardi, incontra un rottame umano e si prova a salvarlo. Qualche volta ci riesce. Ma una donna che non sia una stupida, presto o tardi trova un uomo sano e lo riduce a rottame. Ci riesce sempre.”

028 – “Che in amore chiodo cacci chiodo, sarà vero per le donne, per le quali il problema è appunto come trovare un altro chiodo da ficcarsi in cavità, ma per gli uomini che di chiodo non ne hanno che uno, è meno vero.”

033 – “La grande, la tremenda verità è: soffrire non serve a niente.”

034 – “La donna si dà come premio al debole e come appoggio al forte.”

052 – “A una donna ripugna un uomo che pensi a lei giorno e notte ‒ per la ragione che lei non ci pensa.”

065 – “Nessuna donna fa un matrimonio d’interesse: tutte hanno l’accortezza, prima di sposare un milionario, d’innamorarsene.”

072 – “Quando una donna si sposa appartiene a un altro; e quando appartiene a un altro non c’è più nulla da dirle.”

081 – “Per le donne non esiste storia.”

097 – “Una bella contadina, una bella prostituta, una bella mamma, tutte quelle donne in cui la bellezza non è l’occupazione artefatta di tutta la vita, hanno una dura impassibilità di scherno.”

107 – “Morirà e tu sarai solo come un cane. C’è un rimedio?”

108 – “Proprio il contrario di quanto ci hanno insegnato. Da giovani si rimpiange una donna, da maturi la donna.”

109 – “La donna che frega un altro per venire con te, fregherà te per andare con un altro.”

110 – “Non c’è uomo che non abbia una donna, un corpo umano, una pace.”

150 – “Stare in guardia da chi non è mai irritato.”

168 – “Non si desidera possedere una donna, si desidera possederla noi soli.”

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