A cosa serve la Verità?

di Juanne Pili.

Il dibattito sulla verità è un sempre-verde della Filosofia, da Parmenide al più recente dibattito tra postmodernisti e nuovi realisti.

veritàLe implicazioni investono diversi ambiti culturali, causando – da entrambe le parti – più problemi di quanti se ne vogliano risolvere. Se da un lato un approccio eccessivamente realista rischia di portare ad una resa allo status quo, uno eccessivamente postmoderno può portare a perdere la proverbiale bussola; vedasi il lampante esempio del “problema” posto da Bruno Latour, il quale si chiese in un articolo se Ramsete II fosse davvero morto di tubercolosi; trattato in un precedente articolo dove ponevamo in evidenza le radici postmoderne del complottismo.

Ecco allora che ci apprestiamo a recensire un libro di appena 90 pagine – si legge in un paio d’ore, anche meno – che riporta un dialogo tra Pascal Engel (sostenitore del nuovo realismo) e Richard Rorty (considerato assieme a Jean-Francoise Lyotard uno dei padri del pensiero postmoderno). A cosa serve la Verità? origina quindi da un dibattito tenuto dai due filosofi alla Sorbona nel novembre 2002.

Apre il dibattito Engel, con un’altra domanda:

«Perché, se non si crede più nella verità, si ha tuttavia sete di verità? – poi prosegue – Sono sempre stato stupito, quando seguivo le lezioni di Michel Foucault … di sentirlo spiegarci che la nozione di verità era soltanto lo strumento del potere … per poi ritrovarlo nelle manifestazioni, dietro gli striscioni, a proclamare “verità e giustizia”».

Pensiamo anche alla contraddizione insita nell’esporsi, anche con rischi giudiziari, da parte del filosofo italiano Gianni Vattimo, il quale da un lato nega la verità e dall’altro sostiene i No-Tav, che legittimamente chiedono la chiusura dei cantieri in Val di Susa, sostenendone oltre l’inutilità anche il pericolo di infiltrazioni mafiose e danni al patrimonio ambientale. Ci si ribella ad “una verità” di regime, certamente, non di meno lo si fa in nome di una verità, storica e oggettiva. Ed effettivamente sono tanti gli esperti, in tutti gli ambiti che hanno posto in dubbio la vulgata del governo italiano. Non ci addentreremo oltre per evitare di perdere troppo il filo del discorso.

Engel fa notare inoltre – con una battuta che sarà anche il sottotitolo del libro – che:

«Non ci piacciono i predicatori che parlano in nome del Vero, ma ci preoccupiamo di verità banali, come quelle che ci ragguagliano priodicamente sull’estratto conto della banca».

Segue una analisi critica delle tesi di Rorty, che mette in evidenza le fallacie del suo ragionamento riguardo la verità. In sostanza possiamo riassumerle usando come “cavia” un noto aforisma di Derrida: «non esiste fuori-testo». Nel senso che la verità è frutto di grandi narrazioni che rappresentano l’emanazione di un potere; inoltre il nostro sistema cognitivo è esso stesso un testo. Detta alla maniera di Foucault, noi ci rappresentiamo la realtà con una griglia concettuale. Certamente, nulla esiste al di fuori del “testo” – nulla di sociale – un matrimonio, se si perdono i documenti e tutti i presenti venissero colpiti da amnesia cosa resterebbe di quel contratto? Nulla. Non di meno, se i gravi cadono o un uragano passa lontano da noi, così che noi non possiamo accorgercene; quell’uragano passa comunque e quel grave – se si trova sulla Terra – cadrà, a prescindere dalla nostra “griglia concettuale”. Esistono certamente tante interpretazioni, ma queste non si danno da se, si riferiscono sempre ad un oggetto; che può essere tanto una costruzione culturale (più o meno veritiera) quanto un dato oggettivo, verificabile da tutti.

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Pascal Engel e Richard Rorty.

E’ la volta di Rorty, il quale ribatte:

«La questione che importa a noi pragmatisti non è di sapere se un dibattito possieda o meno un senso, se rinvii a problemi reali o non reali, ma di determinare se la risoluzione di questo dibattito avrà un effetto nella pratica, se sarà utile … La discussione tra Engel e me non si basa dunque sul problema di sapere se esista una cosa che si può chiamare “la conoscenza oggettiva”. E’ evidente. Quel che ci separa è il problema di sapere se si possa dire che alcuni campi della cultura … possano raggiungere la conoscenza oggettiva».

Come facciamo quindi a sapere quale parte della conoscenza è oggettiva e quale mediata da interessi di potere? Tanto vale sostenere tesi funzionali ad un certo progetto pratico. Così pero il rischio è di prestare il fianco ai pregiudizi. Non possiamo ammettere che in fondo le teorie di complotto sono funzionali ad una critica e lotta contro il potere, perché non saremmo diversi dal Don Chisciotte che assalta i mulini a vento credendo si tratti di pericolosi giganti. Non solo non viene intaccato il potere, ma si finirebbe anche per isolare dal Popolo tutti quegli intellettuali ed esperti che trovandosi ad essere interrogati saranno costretti ad ammettere che si tratta di bufale, finendo nella lista nera dei “nemici del popolo”. Un meccanismo delirante che in fondo è già accaduto in passato, in epoche nelle quali – con buona pace dei postmodernisti – esistevano ancora le grandi narrazioni e la possibilità di un pensiero forte.

Il dibattito prosegue ed è pregno di riflessioni riguardo la linguistica, tra i principali campi di battaglia su cui si svolge il dibattito tra realismo ed antirealismo. Certo, vi è il rischio – come faceva notare Rorty – che tutto questo scemi in una sorta di Scolastica sterile. Non di meno, dovrebbe essere di fondamentale importanza difendere la verità. Senza questo orizzonte minimo la resa di fronte alla scienza e la tecnica – tanto temuta dai post modernisti – diventa paradossalmente una conseguenza de facto difficile da scongiurare.

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